mercoledì 29 dicembre 2010

Céline non ci amava, di Karl Epting


Posto un estratto di un ricordo di Céline, inedito in italiano, scritto da Karl Epting: nato nel 1905 nella Costa d’Oro, romanziere e fautore di scambi culturali tra Germania e Francia, Epting lavorò a Parigi dal 1933 al 1944. Direttore dell’Istituto tedesco nella capitale francese dal 1940, dal 1942 al 1944 curò la rivista Deutschland-Frankreich, e diresse la grande libreria Rive Gauche, unica distributrice delle pubblicazioni letterarie tedesche in Francia. Morì nel 1979 a Hänner, nel Baden-Wurttemberg. Cocteau scrisse che Epting fu “ammaliato da Céline”, citando poi questo commento di Ernst Jünger: “Povero dottore! È grave… È come un brav’uomo che si innamora di una ballerina. Non sappiamo dove vi portino queste cose…”, Jean Cocteau, Diario (1942-1945), Milano 1993, pag. 14.

Sempre facenti capolino dietro a Céline, quando iniziava a parlare, le sagome di Bardamu e di Ferdinand - Ferdinand il povero buffone che attraversava tutte le tregende, il nuovo Simplicius Simplizissimus nei cui grandi occhi chiari nei quali si riflettono le moine diaboliche dell’epoca; venuto al mondo in un sobborgo di Parigi deve sopportare tutta la povertà, tutta la bruttezza e la bestialità del suo tempo, che, più tardi, quando sarà il medico dei poveri, i malati arrivano a scaricargli addosso: “Al tempo stesso mi esibivano tra una bruttura e l’altra tutto quel che nascondevano nel ripostiglio dell’anima loro e non lo mostravano a nessuno se non a me. Non si pagheranno mai queste sconcezze abbastanza care. Solo che vi sgusciano tra le dita come viscidi serpenti”[1]. Céline ha dovuto pagare caro nella sua vita ciascuno dei suoi passi. Nei suoi discorsi, disse più di una volta che si sentiva “incatenato alla galea”. Dovette vogare notte e giorno, costretto a questa vita che fu, come quasi nessun’altra, un viaggio attraverso la notte, attraverso le oscurità del nostro mondo, - nel destino interiore come nell’esteriore. - Io non lo dimenticherò mai: ci rincontrammo a Berlino in un cupo ristorante qualunque, ancora risparmiato dalle bombe, e poi Céline se ne andò, leggermente curvo, Bébert sotto braccio, Lily e Vig al suo fianco, attraverso le macerie delle file di case crollate. È questa la mia immagine intima di questo scrittore: Ferdinand in cammino senza riposo, come Ahasvérus[2] nelle rovine del mondo.

[1] Dal Voyage au bout de la nuit.
[2] L’ebreo errante, costretto a camminare sulla terra nei secoli sino alla seconda venuta di Cristo.

Il testo integrale è in appendice della piccola sorpresa céliniana che vi stiamo preparando per l'anno prossimo! ;-)

Andrea

giovedì 23 dicembre 2010

Recensione a "Nello specchio della modernità" sul Secolo d'Italia

Dottor Céline, il situazionista sconosciuto
di Adriano Scianca
Dal Secolo d'Italia del 22 dicembre 2010

Ha scritto una volta Stenio Solinas: «Le cose più intelligenti e più profetiche sulla modernità le hanno dette e scritte proprio i non moderni e sono loro ad aver lasciato un'impronta, un segno di diversità. In poesia, nel romanzo, la rivoluzione l'hanno fatta i Pound, i Céline, gente che non sventolava la fiaccola del futuro, che andava avanti non per forza di inerzia o per bramosia del nuovo in quanto tale, ma perché aveva capito che era l'unico modo per potersi riallacciare all'antico, rimettere linfa in ciò che si era seccato».
C'è molta saggezza in queste parole. La modernità è come quelle donne che si concedono solo a chi le maltratta, sedotte dall'indifferenza, quasi dal disprezzo più che dal corteggiamento ossequioso, spudorato, scomposto.
È per questo che i più grandi moderni sono alla fin fine gli inattuali, ovvero coloro che col proprio tempo ingaggiano una lotta serrata, che è opposizione ma anche co-appartenenza a un medesimo spirito. Essere inattuali non è essere antimoderni, è essere moderni in un modo diverso. E fa bene Solinas a citare Céline. Così come fa bene Patrizio Paolinelli a iniziare il suo ultimo libro con le seguenti parole: «Consapevoli di dare un dispiacere a parecchi céliniani, purtroppo per loro Céline è un caso esemplare di uomo moderno. Tanto esemplare da non poterci ancora oggi liberare di lui». Meriterebbe attenzione anche solo per un incipit del genere, questo Nello specchio della modernità. Fotoritratti di Louis-Ferdinand Céline (Bonanno editore, pp. 227, € 19,00).

Il caro vecchio dottor Destouches e la sua immagine, quindi. Ma attenzione: il saggio di Paolinelli non è un libro fotografico. Qui l'immagine - la fotografia, in particolare - non ha importanza di per sé, come forma espressiva immediata, quanto piuttosto come mediazione tra l'uomo e l'artista, la persona e il personaggio, Destouches e Céline. Nessun disvelamento, beninteso: non si tratta di scoprire l'essere umano oltre lo scrittore come se questo fosse la maschera di quello. Ciò che è interessante, al contrario, è ciò che si muove sulla linea di confine, sempre in bilico fra l'uno e l'altro.
Che comunque non sono mai scindibili, mantenendo anzi un rapporto sempre opaco. Non c'è, insomma, un "vero Céline" oltre l'autorappresentazione che egli stesso ha dato di sé, oltre le trappole disseminate sul cammino, gli equivoci e le contraddizioni. Lo scrittore francese gioca con gli interlocutori e gli interpreti perché innanzitutto gioca con se stesso, fingendo continuamente. Finge di essere pacifista e reazionario, intellettuale e barbone, misantropo e generoso. Finge a tal punto che la finzione finisce per rappresentare la cifra della sua identità. Si capisce bene, allora, cos'è che abbia da dire a noialtri figli della morte di Dio e della malattia dell'uomo. «Céline - scrive Paolinelli - è un intellettuale della crisi del soggetto, un uomo in crisi con il mondo, inconsapevolmente in crisi con se stesso e che mette in crisi chi lo incontra», ma «dato che vivere in crisi (di qualsiasi tipo: familiare, finanziaria, psicologica, occupazionale...) è un'ovvietà per noi postmoderni, Céline permette di aprire una discussione sul nostro tempo». E, apriamo una parentesi, in questo sottile gioco che ondeggia fra identità e finzione si colloca anche quella che Marcel Aymé ha chiamato «la leggenda nera» di un Céline avido, astioso, misantropo e burbero. Leggenda, beninteso, che allo scrittore piacerà alimentare, anche e soprattutto nelle ultime, geniali interviste concesse controvoglia, sempre maltrattando l'interlocutore, sbocconcellando imprecazioni salvo poi non smettere più di parlare. Eppure Aymé ha potuto vedere nel dottor Destouches una «spiccata dirittura morale» che «favoriva in lui una generosità di spirito che gli esegeti non hanno ancora messo abbastanza in luce nella sua opera, ma che si è manifestata sempre lungo il corso della sua vita. Amava l'amicizia, e ha sempre dimostrato una rara fedeltà nei suoi affetti. Durante tutto l'esercizio della sua professione di medico, che ha avuto sulla sua opera letteraria una così grande influenza, ha dimostrato una devozione e un disinteresse ammirevole, sino alla fine della sua vita. Nei suoi ultimi anni, aveva, in effetti, aperto nella sua casa di Meudon un gabinetto medico, non tanto per lucro, ma per riprendere con la medicina un contatto che non fu solamente teorico. Si recava da lui qualche cliente povero, che non si decise mai a far pagare, e per i quali comprava di tasca sua le medicine. No, Céline non era un uomo dal cuore duro, al contrario. La grande e spontanea tenerezza che aveva per i bambini e per gli animali basta a testimoniarlo» (il testo di Marcel Aymé, "Su di una leggenda", è contenuto nel fondamentale Louis-Ferdinand Céline in foto, immagini, ricordi, interviste e saggi. Una biografia per immagini, a cura di Andrea Lombardi, Effepi Edizioni). Dentro la leggenda nera, oltre ma anche sempre attraverso di essa, si situa appunto l'argomento cruciale dell'immagine.

Le foto di Céline, in questo senso, offrono più di uno spunto. Soprattutto quelle che datano dagli anni del successo in poi. Ce n'è qualcuna fenomenale, dove la faccia da schiaffi dello scrittore emerge con potenza e prepotenza. Di tanto in tanto, ovviamente, spunta fuori qualcuno che prende alla lettera quello sguardo da manigoldo, da «maniaco introvertito», diceva Jünger. Commentando una foto del 1934, Antonio Moresco ha potuto scrivere che è «una foto che fa problema: uno dei più grandi scrittori del Novecento ha questa faccia da uomo losco, corrotto, cattivo, da brutta persona, da malavitoso che è meglio tenere alla larga. Com'è possibile che uno dei maggiori scrittori del Novecento abbia una faccia simile?». Si prende troppo sul serio, Moresco, e prende troppo sul serio Céline. Andrea Lombardi, del resto, ha avuto buon gioco nel rispondere che «la fotografia in questione è una tipica foto da studio, che mostra semplicemente Céline - reduce dal successo del suo libro d'esordio e dalla candidatura al Goncourt - che fissa l'obiettivo con aria sicura di sé. Ci pareva che Lombroso fosse passato di moda, particolarmente a sinistra». Ma, al di là di questi bassi affondi che scivolano sopra la reputazione di un uomo già abbastanza maledetto di suo, l'enigma dell'immagine di Céline resta. Paolinelli ne indaga i contorni distinguendo nella vita dello scrittore i momenti da insider (lo scrittore famoso e celebrato) e quelli da outsider (l'epurazione, la caccia al fascista, infine la povertà degli ultimi anni).
Non senza avvertire che queste categorie conservano sempre un fondo di opacità, sempre una tensione al reciproco ribaltamento. Da artista affermato, Céline mostra in genere un'attitudine sfuggente e infastidita rispetto all'obiettivo del fotografo. Sembra sempre essere altrove, concede costantemente il meno possibile di se stesso all'invadenza della macchina fotografica. Nell'ultima parte della sua vita, invece, finirà per darsi senza più resistenze. Non per l'indolenza del vinto o, men che mai, per una sua conversione interiore alle logiche della società dello spettacolo. Piuttosto per un uso calcolato e incredibilmente attuale dei media. Il Grande Reprobo non può più trattare con supponenza l'obiettivo del fotografo. Cerca allora di giocarlo, di recitare il ruolo del vinto. Lo è davvero, vinto, ma proprio nel momento in cui si espone come tale cessa di esserlo. «Per ricostruirsi una reputazione - scrive Paolinelli - Céline si piega alle richieste dei padroni dello sguardo ed eccolo trasformato in un personaggio da copertina. Ma non capitola». E la strategia di non capitolazione passa per l'accettazione dello zoo: la belva feroce è in gabbia e ora si farà fotografare per voi. Ci sono le sbarre di mezzo, effettivamente, ma non si è più sicuri di poter capire chi è dentro e chi è fuori dalla gabbia. «Céline ci ricorda ancora oggi che la libertà personale è un rischio. Ci ricorda anche che negoziando una porzione di indipendenza del proprio sé i mass-media possono essere usati nel momento in cui ci si lascia usare», spiega ancora l'autore di Nello specchio della modernità. Nel momento in cui lo si perdona perché sì, ha peccato, ma in fondo non vale più la pena di infierire, il dottor Destouches ha fregato tutti. Lo ha fatto in modo disonesto? Non più di ognuno di noi, non più di quanto finisca per esserlo, suggerisce Paolinelli, chiunque, ogni giorno, stringe una mano da qualche parte nel mondo e dà una rappresentazione sociale di sé. Quando nel 1957 appare ad Arbasino squallido e confuso, nella sua diroccata villetta di Meudon, non sta fingendo. Non è un calcolo a tavolino, non si è volutamente ridotto a vivere in miseria. È tutto vero. Ciò non vuol dire che egli non giochi anche a sovra-interpretare il ruolo del clochard per prenderci tutti in giro. Non sembra gli importi più di nulla, annota Arbasino. Eppure nello stesso anno torna a far parlare di sè come scrittore. Di nuovo il successo, quindi. Céline non è più un paria. Céline vi ha fregato ancora. Meglio: «Céline combatte l'inganno con l'inganno». Forse anche questa è una parte di quella «spiccata dirittura morale» di cui parlava Aymé. Moralità paradossale, certo. Ma forse, nella sua potenza di fuoco sulfurea e politically uncorrect, più sincera di quella dei suoi contemporanei (e dei nostri). Il napalm letterario sparso a piene mani da Céline è in fondo più vero e probabilmente più morale di tutti i sorrisi e le promesse dei "buoni" di ogni epoca. E lui ne era cosciente: «Quando saremo diventati morali esattamente nel senso in cui le nostre civiltà lo intendono, lo desiderano e ben presto lo esigeranno - diceva - credo che finiremo per esplodere anche di malvagità. A quel punto, per distrarci, non ci resterà a disposizione che l'istinto di distruzione». La finzione di Céline contiene in sé tanta di quella verità che oggi continuiamo ad avere bisogno di lui, circondati come siamo dalla vacuità spettrale di figure divorate dalle proprie immagini. Ci credono davvero, loro, ma non di meno restano intimamente false. Falene, a bout de la nuit.

Adriano Scianca

mercoledì 22 dicembre 2010

Introduzione a NELLO SPECCHIO DELLA MODERNITÀ, di Patrizio Paolinelli




















In "esclusiva" ;-) l'indice e l'introduzione del libro dell'amico Patrizio:

Patrizio Paolinelli


NELLO SPECCHIO DELLA MODERNITÀ
Fotoritratti di Louis-Ferdinand Céline

INDICE
Introduzione
Il corpo, lo sguardo, l’inganno


PARTE I
Un atipico
uomo comune

PARTE II
Visibili segreti
Conclusioni
L’eccezionale quotidiano
Appendice. Pagine prime
Bibliografia
Audiovisivi
Webgrafia


La nostra vita è parte nella follia, parte nella saggezza. Chi ne scrive solo con rispetto e moderazione, ne lascia indietro più della metà.
Montaigne



Introduzione: il corpo, lo sguardo, l’inganno

Dettagli. Consapevoli di dare un dispiacere a parecchi céliniani, purtroppo per loro Céline è un caso esemplare di uomo moderno. Tanto esemplare da non poterci ancora oggi liberare di lui. E’ pur vero che si tratta di un gigantesco paradosso per uno scrittore che in pieno ‘900 ha tenuto alta la bandiera dell’antimodernità pagando di persona un prezzo non indifferente. E probabilmente lo stesso autore del Voyage (1) si opporrebbe a vedersi descritto come rappresentante di un’epoca che disprezzava. Sembrerà banale ma molto semplicemente capita a tanti di pensare in un modo e, a piccoli o grandi passi, agire in un altro. E’ capitato anche a Céline. Uomo che ha convissuto con molti inganni, è sceso a compromessi con la realtà, ha allontanato le pratiche dai valori, si è trovato dinanzi a effetti inintenzionali del proprio fare e disfare. Dinamiche che non sorprendono più di tanto perché sono pane quotidiano nel traffico delle moderne interazioni sociali. Dinamiche banali per l’appunto, ormai implicite nel nostro modo di essere e che non mettiamo in discussione perché fanno parte del silenzio che permette agli ingranaggi della vita sociale di funzionare. Dunque, è di ovvietà che ci occupiamo in questo lavoro: le ovvietà della vita quotidiana di uno scrittore maledetto colte attraverso il suo repertorio fotografico. Perché prendersi questa gatta da pelare? Perché le fotografie sono dettagli, dettagli del tempo, e i dettagli occupano un posto insostituibile nella nostra esistenza. Poi, perché sia come genio che come uomo comune Céline ha molto da dire a noi postmoderni: non per niente l’identità è il suo problema di fondo; non per niente Céline è un intellettuale della crisi del soggetto, un uomo in crisi con il mondo, inconsapevolmente in crisi con se stesso e che mette in crisi chi lo incontra.

Domande. Dato che vivere in crisi (di qualsiasi tipo: familiare, finanziaria, psicologica, occupazionale…) è un’ovvietà per noi postmoderni, Céline permette di aprire una discussione sul nostro tempo obbligando a interrogarci se come individui viaggiamo verso un’evoluzione o un’involuzione morale. Noi privilegiamo la struttura del sentire del Céline pacifista, animalista, rispettoso di ogni espressione della vita. Mentre siamo agli antipodi del Céline antisemita, xenofobo e filonazista. Tuttavia entrambi i Céline sono oggi presenti negli scenari del nostro mondo. Un mondo in cui la democrazia è sempre più gestione tecnica dell’opinione pubblica (anche e soprattutto tramite i mass-media). Un mondo dove le disuguaglianze sociali aumentano di anno in anno e alla cittadinanza sempre più povera e infelice delle nostre obese metropoli sono dati in pasto cittadini stranieri ancora più poveri e infelici sui quali scaricare i propri rancori e le proprie delusioni: per quanto si faccia di tutto è oggi egemonica la cultura politica che ripropone un controllo sociale fondato sul capro espiatorio e collaudato su scala continentale dai nazifascisti negli anni ’30 del Novecento. La novità introdotta dalla postmodernità è semmai un ritorno al passato remoto in salsa digitale: l’arena televisiva appare allo sguardo del pubblico come la versione elettronica di un sanguinario gioco circense dell’antica Roma. E il pubblico si divide tra chi palude, chi ha paura e chi s’indigna. Domande: a che punto è la dialettica tra chi ha perduto la speranza e chi chiede un futuro migliore? A che punto è la dialettica tra passato e presente? La parabola di Céline aiuta a fissare i contorni di possibili risposte.

Immagine. Nel bene e nel male Céline è un personaggio che scandalizza. I suoi pamphlet antisemiti sono ancora oggi messi al bando e ciclicamente ritorna la querelle se pubblicarli o meno. (2) Continuare a gridare allo scandalo-Céline non ci è parsa una buona soluzione e abbiamo preferito curiosare nei retroscena dell'uomo pubblico e nelle riparate enclave dell'uomo privato. Siamo così entrati in rapporto con lo scrittore tramite i suoi libri maledetti e benedetti passando sia attraverso le sue parole sia attraverso le sue immagini fotografiche. Il corpus principale del presente lavoro è principalmente un’attività dello sguardo. Si tratta di un’esplorazione che ha l’obiettivo di passare il confine della prima impressione e penetrare nel mondo allegorico del fotoritratto. Ma non ci aggireremo per gallerie, né ci occuperemo delle implicazioni relative agli album di famiglia, né tenteremo di avanzare pretese teoriche sul ruolo della fotografia nella società. Più semplicemente la nostra indagine consiste in un’analisi di contenuto sul potere evocativo delle immagini di Céline. Potere che passando dalle performance del corpo carica di senso l’agire comunicativo del soggetto. Il fotografato invia messaggi molto precisi e molto personali all’osservatore: a distanza di tempo e di spazio Céline dialoga ancora con noi. Questo studio va dunque pensato soprattutto come un breve tirocinio dell’occhio. Un tirocinio narrativo sull’incontro fotografato/pubblico. Tuttavia non nascondiamo una piccola ambizione: contribuire a sviluppare le capacità interpretative del fruitore di prodotti mediali.

Strategie. Nei confronti della macchina fotografica Céline è particolarmente indisciplinato. Indisciplina intelligente perché il suo sottrarsi allo sguardo della modernità è ricco di contraddizioni e di reinterpretazioni delle situazioni secondo la convenienza del momento: per gran parte della sua vita Céline vuole accecare l’occhio ciclopico del fotografo, poi, nel secondo dopoguerra, si specchia in quello stesso occhio a beneficio del pubblico. Niente paura. Céline non è più disonesto di chiunque altro si metta in posa davanti all’obiettivo. Beninteso: disonesto come può esserlo un attore durante la recita. Ma disonesto anche secondo un’altra natura dell’inganno, la natura che emerge quando il palcoscenico è il mondo. In questo caso la frode dello scrittore va messa tra virgolette perché non prevede la premeditazione: si inizia con una recita e si finisce per scambiare il proprio film con la realtà. Come tutti coloro che combattono quotidianamente con l’artificiale complessità della vita moderna Céline imbroglia se stesso, bara con il prossimo e spesso nega l’evidenza senza averne coscienza. Per questo motivo la sua ridefinizione del proprio rapporto con il mondo delle immagini va inquadrata come una strategia molto sviluppata ma tipica delle interazioni umane in regime di perenne instabilità sociale. Strategia che per la sua regolarità presenta il vantaggio di far scendere il genio dall’Olimpo delle idealizzazioni desiderate dal pubblico alle pratiche più prosaiche della vita quotidiana. E’ all’interno di questa salutare imperfezione che Céline mette in atto il suo contemporaneo accettare e rifiutare il mondo, negare l’odiata civiltà delle immagini e trattare con questa stessa civiltà quando le circostanze lo impongono. Non poteva fare di più: ai suoi tempi la postmodernità covava già nella modernità ma in forma embrionale. Sia nella fase di rigetto che in quella di negoziazione la protesta di Céline contro il mondo, il mondo che oggi ha finito per costringere i suoi abitanti a recitare parti che non gli appartengono, si esprime mantenendo sempre alto il conflitto con diverse manifestazioni della realtà. Come? In molti modi. Prima di tutto gettando ombre su ombre su innumerevoli passaggi della propria vita: truccare e deformare i fatti sono espedienti essenziali nel regime discorsivo di Céline. Poi, tramite uno stile narrativo delirante, uno stile narrativo gridato, ritmato, cantato e inimitabile che investe a più livelli i tre stadi della sua produzione intellettuale: quello delle prime opere letterarie, quello dei libelli politici e quello che lui stesso chiamerà petite musique. In terzo luogo, mediante l’immagine di un’umanità senza speranza: (Céline 1988a: 187). La quarta istanza del conflitto céliniano col mondo consiste nel rivendicare il primato del sentire sul calcolare, dell’emozione sulla ragione, della vita sulla cultura. Infine, dopo il ‘45 Céline riuscirà a catalizzare su di sé gli strali di tanta parte della società francese a causa del suo antisemitismo.

Significati. Occupandoci di Céline non potevamo non intrattenerci con un vocabolario d’impurità. Perciò ai termini ambiguità, mentire, mascherare e simili non assegniamo alcun giudizio morale. Il motivo è semplice: in una società soggetta al perenne mutamento delle apparenze tra il vero e il falso corre il mondo intero. Basti pensare a un evento minimo come la presentazione di sé. Interazione in cui la comparsa della sincerità è quanto di più improbabile possa capitare perché sarebbe scioccante per se stessi e per gli altri. Sorvolare su quanto sia temerario stringere la mano di sconosciuti è un atto di sopravvivenza e una fuga da se stessi. Mettere la sincerità tra parentesi è dunque una mossa sociale necessaria perché ai nostri giorni la vita mentale è talmente assorbita dalla concorrenza per l’affermazione del proprio Io che l’inganno è la costante degli scambi quotidiani. Solo il silenzio può riportare in un altrove a tutti ignoto tranne che a se stessi. Ma oggi anche il silenzio è una risorsa naturale in via di esaurimento. E così, pienamente figlie del proprio tempo, le parole di Céline su di sé sono largamente inattendibili ossia finalizzate a manipolare la realtà a proprio uso e consumo. Lo scopo? Quello di tutti: costruire giorno per giorno la propria individualità con sforzi tanto incredibili quanto inavvertiti. Connettere le parole dello scrittore con i suoi comportamenti espressivi dinanzi alla macchina fotografica non ha quindi l’intenzione di denunciare le contraddizioni di opinioni e comportamenti. Non sarebbe di alcuna utilità sul piano conoscitivo perché per Céline, come per ogni individuo moderno, la realtà non può fare a meno delle apparenze, perché la vita interiore si organizza su divisioni irrisolvibili e perché la costruzione dell’identità oscilla di continuo tra coerenza e incoerenza. Insomma, per limitarci a quell’evento banale e straordinario che è la prima impressione: (Goffman 1975: 83). Il nostro lavoro è stato dunque quello di estrarre dal mutismo delle immagini fotografiche il dire delle manifestazioni fisiche. Riassumendo, abbiamo cercato alcune delle principali relazioni di parentela fra tre famiglie di significato: il corpo, lo sguardo, l’inganno.

Storia. Céline ha un posto nella modernità. La modernità degli anni ’30. Gli anni delle avanguardie artistiche, letterarie e musicali. Anni del jazz, del futurismo, della psicoanalisi. Anni della chimica e dell’acciaio, del petrolio e dell’elettricità. Anni di pesanti squilibri monetari e tremenda depressione economica. Anni che serbano il ricordo del mattatoio della Prima Guerra mondiale e preparano le bombe atomiche della Seconda. Anni che passano per la rivoluzione russa, la guerra civile spagnola, la bancarotta della repubblica di Weimar e l’avvento dei fascismi in gran parte dell’Europa. Dinanzi alla (Mosse, 1977) Céline sta dalla parte degli ultrareazionari. Non crede nella democrazia liberale, giudicata portatrice di miseria e sottomissione per le classi popolari (), né aderisce a un’avanguardia di tipo culturale (pur se la critica letteraria tende ad annoverarlo tra gli espressionisti). Come tanti altri intellettuali anche l’autore del Voyage solleva lo sguardo ben oltre il proprio territorio di appartenenza e si misura in furibondi corpo a corpo nell’arena politica della sua epoca: è il Céline che va dal 1937 al 1944, quello dei libelli contro il bolscevismo ebraico. E’ il Céline militante politico legato all’idea di una Francia arianizzata saldamente alleata della Germania nazista. E’ il Céline che si autonomina custode della vera identità francese (da cui sono esclusi i francesi che non la pensano come lui continuando così a perseguire l’ideale di una società cementata dall’Union Sacrée del ’14-‘18). C’è poi un altro Céline, l’umanista che fa a pugni con il fanatico estremista. E’ il Céline che anche nei pamphlet critica il lato violento della modernizzazione, che invoca una migliore qualità della vita per i ceti popolari e che, come diremmo oggi, contesta la dittatura del PIL. Céline (1982a: 140): <… capisco le scienze esatte, le nozioni aride per il bene dell’Umanità, il Progresso in marcia… Ma vedo l’uomo tanto più inquieto perché ha perso il gusto delle fiabe, del favoloso, delle Leggende, inquieto al punto di urlare, perché adula, venera il preciso, il prosaico, il cronometro, il ponderabile. Ciò non è nella sua natura. Diventa pazzo, rimane altrettanto idiota>. Entrambi i Céline, quello che mai sospende il giudizio e quello che considera l’uomo come fine, albergano nel sé di un poeta attratto dal transitorio e dall’immutabile, per usare le parole di Baudelaire sulla modernità. Un sé plurale, costruito con eterogenei frammenti di personalità e al contempo organizzatore dell’esperienza. Un sé che troverà piena realizzazione nella personalità dei postmoderni, nel loro bisogno di orientarsi nel mondo, nel loro ultimo, disperato tentativo di non lasciarsi omologare da una società fondata sull’avere e sul terrore di non avere. E le avanguardie artistiche? Sono morte per mano del mercato o per mano propria.

Modernismo. Data oggi l’improponibilità di un’avanguardia, (Bauman 2002a: 111). Approfittando di quest’interrogativo così ben posto è necessario ricordare innanzitutto che Céline non crede né nella rivoluzione né nel progresso. In quanto al passato lo accetta per quel tanto che è funzionale al suo essere. Più ingarbugliato è il suo rapporto con la novità e l’innovazione: le abbraccia senza riserve e le critica violentemente. Per quanto concerne la cesura, la rottura di Céline con il suo tempo si esprime su tre livelli: l’emozionale, il letterario, il politico. Tutti e tre questi livelli incrociano con i volti della sua insoddisfazione: l’altro, il diverso, il mondo. E rispetto ai nostri tempi? Céline è in grado di introdurre una cesura? No. L’autore del Voyage è un uomo e un intellettuale dalle contraddizioni insolubili perché ancora oggi irrisolte. Da qui la sua attualità. In attesa di una nuova formazione sociale Céline ci consegna un problema-chiave per la nostra civiltà: l’insoddisfazione verso ogni relazione umana. Certo, nel concreto i gradi di insoddisfazione variano parecchio. Ma non è questo il punto. Céline costringe a fare i conti con il lato oscuro del proprio sé e di ogni interazione, costringe a fare i conti con la presocialità e l’asocialità che si annidano in ogni individuo sottoposto alle pressioni della vita moderna. E’ vero che la particolare immaginazione sociologica dell’autore del Voyage mette il lettore dinanzi a questa riflessione dipingendo un mondo senza fede e senza sogni conducendolo così in un vicolo cieco. Ma questo mondo è quello della scrittura. E’ il mondo simmeliano dell’interiorità e dell’emozione mentre quello dell’intelletto deve fare i conti con la vita quotidiana della metropoli e spesso si trova dinanzi a un bivio: conformarsi o ribellarsi. Céline adotterà entrambe le strategie. Come tutti.

Mondi della vita. All’alba del terzo millennio è giunta a conclusione un’epocale spoliticizzazione dell’arte e della cultura in generale. Oggi la scrittura non è più in grado di cambiare un mondo egemonizzato dall’industria dell’intrattenimento visivo: TV, cinema, moda, pubblicità... Il potere mediatico del libro è in declino, per non parlare del ruolo degli intellettuali che utilizzano questo mezzo di comunicazione. La carta stampata è soggetta ai capricci del mercato e diventa sempre più oggetto di svago al pari del varietà televisivo. Tuttavia, ancora oggi Céline mantiene intatta tutta la sua autorevolezza di narratore. E’ un autore che nella <… situazione letteraria dell’età della comunicazione in cui tutti scrivono, ma nessuno legge, tutti parlano, ma nessuno ascolta> (Perniola 2009: 59) si fa sentire in un silenzio saturo di domande interiori. Non solo. Impedisce l’imitazione della sua scrittura e obbliga all’ascolto di se stessi. In altre parole: il Voyage è ancora in grado di sedurre, nel senso etimologico del termine: se-ducere, . Certo, una seduzione estetica all’insegna della crisi, anzi: delle crisi, tra le quali quella del senso comune. Ma proprio qui risiede il suo fascino. L’amara distanza nei confronti del prossimo, distanza che colora di nero e di grigio il Voyage, cattura l’attenzione dei postmoderni perché mette sotto scacco i mondi vitali costruiti nel corso dell’esperienza quotidiana e dei processi di interazione. Céline: (Céline 1988a: 370). Per Ferdinand Bardamu, il protagonista del Voyage, sono pochi gli scogli cui la vita permette di aggrapparsi: dicono. E la vita li riprende sino alla prossima volta in cui ricorreranno allo stesso trucco, (Céline 1988a: 305). Lo scacco ai significati dell’esistenza è assunto dal lettore del Voyage come un’intima verità da non manifestare che eccezionalmente nella vita di relazione. Intima verità che si affaccia nel processo di autoriflessione e in particolare nei momenti sostenuti dal silenzio e dall’isolamento che la lettura comporta. Da questa potente spinta all’introspezione deriva ancora oggi la capacità del Voyage di significare e turbare. Céline (1980: 80): . Tuttavia: la messa in crisi dell’esistenza e il tormento di verità difficilmente esprimibili sono probabili improbabilità con cui fare i conti dato che in quanto esseri umani siamo imperfetti, ossia soggetti storico-sociali, e nella nostra esperienza quotidiana nessuno di noi è solo Bardamu. Céline meno di tutti. Anche per questo il Voyage permette l’ingresso in mondi differenti. Dipende da quale porta si accede. Può costituire il libro della crisi ideale, pronta a trasformarsi in ideologia del nulla. Può costituire il libro del pessimismo, pronto a tradursi in scetticismo spinto. Può costituire il libro del paradosso, proprio perché crisi ideale e pessimismo spinto imprimono al lettore la forza per andare avanti. Come è andato avanti Céline.


NOTE

(1) Chiamiamo Voyage il più celebre romanzo di Céline: Viaggio al termine della notte (1988a).

(2) Vedi le accese polemiche suscitate in Francia nel dicembre 2008 per la pubblicazione da parte della ultraconservatrice Les éditions de La Reconquête (nata nel 2006 e registrata in Paraguay) di 5.010 copie di Les beaux draps, (Taglietti 2008). Ma si osservi anche il panorama italiano dove la richiesta di sdoganare i libri maledetti si fa sempre più insistente (Colombo 2010). Sui libelli di Céline vedi infra.

giovedì 16 dicembre 2010

Paris Between the Wars Art, Style and Glamour in the Crazy Years, di Bouvet e Durozoi


Vi segnalo questo bellissimo libro, dall'eccezionale iconografia (riprodotta con una qualità tipografica superiore) e dal documentato testo, su protagonisti, opere, movimenti, etc della società, letteratura, teatro, cinema, arte e moda in Francia negli anni '30. Il nostro LFC è ovviamente citato, per il Voyage e per i "pamphlet".
416 pag., rilegato, edito da Thames&Hudson.

domenica 12 dicembre 2010

La morte di Céline su La Stampa e La Stampa Sera, 5 luglio 1961


Grazie all'amico lettore Gino postiamo questi due articoli usciti il 5 luglio 1961 su La Stampa e La Stampa Sera e dedicati alla morte di Céline; articolo fazioso e inaccurato il primo, già più obiettivo il secondo. Cliccate sul link per scaricare il pdf.!


Nota: Sandro Volta, il redattore del primo articolo, attento ad ogni riga a stigmatizzare il "nazista, antisemita, fascista, etc" Céline, probabilmente aveva una qualche relazione con tale... Sandro Volta, inviato in Africa Orientale (dove "Tutti [i giornalisti] erano attenti a guadagnarsi meriti presso il regime" cit. da "L'Italia in prima pagina", di P. L. Vercesi, pag. 199-200), per la fascistissima "Gazzetta del Popolo" durante il Ventennio, insieme a molti altri giornalisti.